Amor sacro e profano
Nell’Amor Sacro e Profano una rosa giace sul sarcofago accanto al bacile che reca lo stemma della sposa e l’allusione alla perdita della verginità, alla deflorazione, sembra evidente considerato che il quadro appare ormai interpretabile come allegoria matrimoniale, dopo che la ricerca storiografica è riuscita a decifrare i simboli della casata Aurelio, nella fronte del sarcofago e Bagarotto, appunto, sul bacile.
Che il celeberrimo dipinto di Tiziano, databile alla metà del secondo decennio del Cinquecento, rappresenti, in sostanza, nella donna vestita l’allegoria della sposa che attende le nozze, e nella nuda l’immagine di Venere che incita la sposa all’amore, sembra ormai assodato.
Ma i significati riposti del quadro, che non possono non esserci, continuano a sfuggire perché non ci si può accontentare della individuazione del livello più elementare, tanta e tale è la qualità dell’opera non riconducibile in una formula onnicomprensiva.
Si sa che la sposa si chiamava Laura Bagarotto e si sa che il marito, Niccolò Aurelio, era amico e estimatore del Bembo, il maggior sostenitore del ritorno al Petrarca e all’uso della lingua italiana.
Considerato, allora, che la sposa del quadro reca lo stesso nome dell’amata del Petrarca, nome emblematico e universale, non sembra strano che possa esserci nel dipinto una eco remota della poesia “Chiare, fresche, e dolci acque”, specie considerando che le due donne sono ai lati opposti di un antico sarcofago ora divenuto una fontana colma d’acqua che un amorino rimescola, come a farne scaturire il senso della vita incessante e feconda.
A dire il vero, nella poesia, Petrarca parla di una pioggia di fiori che scendeva sul grembo della bellissima donna e qui, nel dipinto, soltanto una rosa poggia accanto alla sposa in una posizione eminente da un punto di vista figurativo, ma come isolata.
Non si configura come un inno all’amore, ma come un punto dello spazio, cruciale e marginale insieme.
Tuttavia anche il Petrarca stesso giocava volentieri con le parole e, in questo caso, la delicata poesia del fiore contribuisce a creare quel senso di “aura” sentimentale, calata nello sguardo, remoto e sognante, della donna vestitache è come chiusa in se stessa e non guarda verso Venere perché ne è pregna.
Viene in mente un altro magistrale gioco di parole, quello, assai più tardo, del Cavalier Marino, quando definisce la rosa, riso d’amor. E, effettivamente, il fiore reciso e abbandonato sul sarcofago accentua il carattere di sospensione del tempo e di quiete sovrana, promananti dal capolavoro.
Del resto il fiore stesso è una sorta di geroglifico del mistero.
Il suo significato più profondo può restare incognito. Tiziano, poi, è un artista tutto proiettato verso l’esterno della luce e del colore e è sintomatico, in questo lavoro giovanile, come si lasci alle spalle quella complessa congerie di pittura di nature morte che avevano nutrito di sé le generazioni precedenti, da Mantegna a Bellini. Gli apparati complessi e problematici di festoni e di oggetti che, col tempo, erano diventati complemento necessario dell’immagine sacra, si trasformano del tutto, per lui, in immagine di Natura e di giardino. E qui albergano i fiori e si riempiono di senso.
La rosa fa la sua timida apparizione qui ed è uno dei primissimi esempi di un utilizzo figurativo di tale immagine, ulteriore contributo a mettere a fuoco un concetto fondamentale, l’essere stato, cioè, l’Amor Sacro e Profano una specie di unicum in cui ogni elemento, anche il più minuto e almeno apparentemente, marginale, diventa il segnale di un uovo modo di pensare e di riproporre il tema figurativo, quale mai prima di allora si era visto nella pittura italiana.
Claudio Strinati, nato a Roma nel 1948 è Soprintendente per i Beni Artistici e Storici.
Si è occupato soprattutto di pittura e scultura del Cinquecento.
Ha presieduto il Comitato scientifico della mostra “Tiziano Vecellio, Amore Sacro e Profano” tenuta a roma nel Palazzo delle Esposizioni all’inizio del 1995.
Claudio Strinati